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CURIA VESCOVILE DI AVERSA
TERRA NOSTRA
SOPRINTENDENZA PER I B.A.A.A.S. DELLE PROVINCE DI CASERTA E BENEVENTO
L'ALTRA IMMAGINE
La maggior parte delle persone parla troppo. Talvolta un'immagine vale mille aforismi
Peter Blake
di ANTONIO GRAZIANO
Cappella Palatina - Palazzo Reale - Caserta, 25 marzo - 8 aprile 1995.
Dalla mostra è scaturita una pubblicazioe dedicata a Don Peppino Diana.
I testi sono di Marta LANDOLFI.
Gli interventi di Gennaro CORONELLA e Don Peppino ESPOSITO.
La collaborazione giornalistica di Angela ROSSI.
La collaborazione tecnico artistica dell'Ing. Romualdo GUIDA e dell'Arch. Romano LANDI.
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PREFAZIONE
Il 19 Marzo 1994 veniva ucciso nella sagrestia della chiesa di San Nicola di Bari, quartiere Larina, a Casale di Principe, Don Giuseppe Diana.
Il gesto criminoso, per la specificità del fatto, del luogo, intendeva colpire oltre il simbolo, l'uomo impegnato, in una terra di fiontiera, a sconfiggere le molteplici e a volte subdole forme di quella «illegalità diffusa» che ha la luce opaca della quotidianità ordinaria, dell'arretratezza, della miseria, della prevaricazione in cui la dignità umana è tutt'altro che un valore.
La vita spirituale, etica ed umana di questo prete di trincea ruotava intorno ad un progettochiave che potrebbe apparire agli scettici e ai* rassegnati tensione utopistica, ma che intendeva in realtà sovvertire quelle condizioni economiche, sociali, ma soprattutto culturali e di mentalità che si strutturano in organizzazioni, in ruoli cosi radicati, che, inevitabilmente, finiscono per rappresentare la peculiarità di un luogo.
Ed è a questi luoghi e alla loro rappresentazione che, ad un anno dalla morte di Don Giuseppe, intendiamo ritornare con la memoria, con gli occhi, con le parole.
Le foto che seguono, tutte riferite all'agro aversano, ritraggono momenti e situazioni che, pur diversificate tra loro, hanno saputo cogliere un obiettivo mai retorico mai banale, evidenziando il filo rosso che certamente le unisce: quel «male di vivere» cui la cronaca non dà spazio.
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L'altra immagine
L e immagini che costruiscono questo percorso sono la manifestazion visiva di una realtà soprattutto umana che deve suscitare inquietudin nella mente di quanti, pur apparentemente informati, sono in realt assuefatti dallo scorrere di altrettanti immagini che il sistema medial oggipropone.
Il rischio è proprio questo, che di queste realtà, una volta consumata 1 cronaca, se ne smarriscano la complessità ed il senso diventando cos marginali, schiacciate dall'evento.
Al clamore iniziale, infatti, segue di solito il silenzio e, ancor peggio, la miriade di stereotipi che, insieme a tutti gli espedienti adoperati nelle comunicazioni, non trasmettono informazioni; cioè non modificano le conoscenze che abbiamo di un determinato aspetto della realtà, ma al contrario, confermano il già noto, facendolo apparire come qualcosa di ovvio, di scontato, che non ha e non può avere altra possibilità di rappresentazione che quella tramandata.
Parole come degrado, emergenza, camorra, antistato, formano, insieme agli aggettivi che inevitabilmente le accompagnano, i termini noti che dai media ci raggiungono, nulla aggiungendo alla nostra memoria di moderni fruitori di indagini.
Immagini che materializzano storie concrete alle quali fa da sfondo una realtà, quella dell'agro aversano, attraversata da squilibri e tensioni in cui lo sguardo di un bambino rivela una infanzia a disagio e si intreccia a quello assente di chi ha passato un'intera vita in un ospedale psichiatrico, non per un gioco artificioso di immagini ma per una sorta di espressione territoriale in cui la combinazione di variabili sociali ed economiche (immigrazione, abusivismo edilizio, disoccupazione) a cui non è seguita una risposta razionale, produce fenomeni che non è esagerato definire di alienazione sociale.
L'idea, intorno alla quale questo progetto si è andato delineando nel tempo, contiene in sé una duplice finalità; la prima che scaturisce dalle riflessioni appena messe in evidenza e cioè quella di raccontare ciò che il clamore della cronaca non lascia emergere e l'altro più strettamente propositivo e soprattutto rivolto a specifici interlocutori affinché si impegnano ad individuare gli strumenti e le forme di un'azione efficacemente preventiva che veda impegnati non singoli eroi ma ogni parte del corpo sociale.
La scelta di Caserta non è casuale ma ha un intento preciso: quello di irrompere con la forza di cui solo l'immagine è capace in una città che, chiusa in un distacco aristocratico, sembra ignorare i turbamenti di gran parte delle sue province.
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Dai tutto Te stesso
senza mai risparmiarti...
Provo una profonda e comprensibile commozione nel ricordare la figura, di un uomo e sacerdote, di Don Peppino Diana, cui mi legavano cordiali ed affettuosi rapporti di amicizia.
L'attaccamento alla sua comunità, dimostrato nell'impegno quotidiano a favore dei giovani, degli anziani, degli emarginati, il suo. profondo ed inossidabile senso religioso, il sorriso che sempre caratterizzava il suo volto rimangono indelebilmente nella memoria di chi l'ha conoscuito.
Non sappiamo chi materialmente ha posto fine alla sua nobile esistenza, dobbiamo però essere consapevoli delle colpe che ha avuto il contesto ambientale, in cui don Peppino operava, nel determinare quel vile gesto.
Sono le culture della sopraffazione, della violenza, dell'egoismo, dell'indifferenza i mandanti morali di quel proditorio omicidio.
Il martirio di don Peppíno è il martirio di una comunità vinta, che ha perso la battaglia della crescita morale e della maturazione civica. Di una comunità che non ha ancora imboccato, con decisione, la strada della modernità e dello sviluppo nella legalità e che occorre aiutare in questo suo difficile cammino.
La solitudine di Don Peppino, nella sua coraggiosa azione di rinnovamento morale, sociale e spirituale, è emblematica di quella di un intero popolo lasciato vivere, e lentamente morire, nel suo stesso degrado. Degrado che don Peppino combatteva per «amore del suo popolo»; ed è per questo che il suo sacrificio non va reso inutile, ma deve costituire un monito ed un esempio per tutti gli uomini di buona volontà che anelano álla libertà ed al cambiamento.
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Guardando le foto, ho notato come l'autore ha saputo mettere in risalto l'ideale mostrando il reale e come ha saputo guardare la realtà cogliendo ciò che fa problema, che interpella e che mette in crisi.
Una grande flessibilità, semplicità e vivacità coniugata con la partecipazione alle «situazioni» proposte nelle foto ci danno l'idea esatta del lavoro oculato, preciso e attento che è stato compiuto.
L'autore, che conosco da tanto tempo e con cui spesso mi son ritrovato a riflettere soffrendo su questa nostra realtà, ci invita a guardare con gli occhi di chi vuol «essere risposta propositiva» per la promozione della vita dell'uomo, del territorio, e riappropriarci delle nostre radici culturali.
Ci invita a guardare le foto, dove si scorge la violenza, la violenza alla vita che si traduce in disagio sociale, incuria, disservizio, razzismo, droga, malavita, potere, ecc....
Ci invita a guardare le foto, non solo per denunciare, non solo per compiangerci, non solo per prendere coscienza, ma per non sentirci distanti dal territorio pur vivendoci e per amarlo.
Ci invita a guardare le foto perché non possiamo più continuare ad essere vittime di ingiustizia sociale che genera emarginazione, povertà e sperequazione, ma segno e motivo di riflessione intorno ad una dinamica di vita qualitativamente mgliore.
Ci invita a guardare le foto per capire come questa realtà ci costringe ad accontentarci ad assuefarci perdendo la capacità di essere agenti di cambiamento.
Ci invita a guardare le foto per non farci intrappolare dalle tanta analisi di pseudointellettuali o di politici disattenti, superficiali, interessati solo al proprio tornaconto e corrotti, ma per scommettere sulle qualità umane e spirituali dell'uomo del nostro territorio.
Ci invita a guardare le foto per non morire d'inerzia ma per mettere le ali alla nostra speranza.
Ci invita a guardare le foto per saper leggere le sfide che la storia del nostro territorio ci propongono, e credere fermamente che solo le istituzioni possono risolvere i problemi.
Allora abbiamo bisogno di:
IMPEGNARCI a vivere la storia del nostro territorio come storia personale
LIBERARE la nostra vita dall'apatia per costruire il futuro.
VIVERE la cultura della non-violenza come dimensione Catartica del territorio.
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