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Mobbing, il mal d'ufficio, l'ultima trovata
della filosofia buonista

"Sette" n° 47 del 26/11/1998, supplemento del "Corriere della Sera"
http://www.fimliguria.com/sicurezza/segnalazioni/mal_ufficio.html




L'ultima trovata della filosofia buonista è il "mobbing" , il mal d'ufficio, il malessere provocato dalle calunnie dei colleghi, dalle prepotenze dei capetti e dei concorrenti, la maldicenza che ti ostacola la carriera, le piccole sevizie subite quotidianamente sul lavoro, il doppiogioco del compagno.
Importata dagli Stati Uniti, questa malattia è diventata subito di moda, la Uil ha aperto un sportello "mobbing", i medici del lavoro rilasciano certificati diagnostici e prescrivono cure, gli esperti di diritto comparato ricordano che in Germania chi è vittima del "mobbing" può chiedere il prepensionamento e in Scandinavia il "mobbing" è addirittura un reato.
Medici e sindacalisti, giornalisti e professori vorrebbero che gli uffici italiani fossero dunque finalmente purificati dal morbo del "mobbing", niente più calunnie e invidie, per esempio, tra gli impiegati del Comune e della Provincia di Perugia che, rispondendo a un questionario, hanno denunciato le violenze del "mobbing", le sue cattiverie e soprattutto i suoi danni.
La parola inglese "mobbing" viene dal latino "mobile vulgus", che significa appunto "il movimento della gentaglia". E il "mob", termine inglese molto usato dagli storici, è un conflitto sociale senza capi, un fuoco plebeo: un tipico "mob" fu, in questo senso, la cosiddetta rivolta di Reggio Calabria nel 1970, quella famosa dei "boia chi molla". È dunque da "mob" che si arriva a "mobbing", all'assalto della gentaglia d'ufficio contro il novellino, il più bravo, il più ambizioso.
Benché sgradevole, stressante, doloroso e maleodorante, il "mobbing" è anche uno straordinario strumento di selezione, l'ordalia medievale che rende forti e seleziona i migliori, la dura strada dell'apprendistato, della fatica, della rabbia. In qualche modo il "mobbing" è la vita stessa di un ufficio, perché la maldicenza e la calunnia, l'invidia e il trabocchetto sono i "mob", gli spasmi della violenza subalterna, necessari al mediocre come alla seppia è necessario emettere l'inchiostro per nascondersi e sfuggire nel buio all'attacco dell'animale più feroce.
Non esiste persona di successo che non abbia incontrato e superato il "mobbing", e che, subendo il "mobbing", non si sia forgiato.
Ricordo bene un giovane giornalista che quando arrivò nella redazione romana di un grande quotidiano fu subito sottoposto, da capi e vicecapi, colleghi frustrati e vecchi inaciditi dall'insuccesso, a uno stillicidio di violenze grasse e volgari, sottili e raffinate. Lo ricordo sull'orlo del panico, con il viso tirato e le mani sudate. Ma lo ricordo pure arrabbiato e combattivo. A ogni "mob" che gli veniva sferrato diventava un po' più bravo: per superare calunnie e violenze doveva attrezzarsi, spostare il proprio limite, dimostrare, nella professione, di essere più forte della piccola calunnia mediocre e delle meschinità dei colleghi frustrati.
La dialettica degli uffici del resto non è fatta solo di "mobbing", ci sono anche i colleghi generosi, i saggi, i simpatici, gli imprendibili fuoriclasse.
E infine senza "mobbing" né Kafka né Svevo avrebbero scritto i loro capolavori e senza "mobbing" Dino Buzzati non avrebbe neppure immaginato "Il deserto dei tartari", quel romanzo sul "mobbing" praticato (a quei tempi) al "Corriere della Sera". Una storia che è un omaggio straordinario alla maldicenza, alla calunnia, al dolore e alla miseria, insomma alla vita della gentaglia d'ufficio.

Francesco Merlo