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Accusi il Capo di molestie senza prove?
Sei Licenziata!!!.
http://www.corriere.it/corriere/2000/01/20/fcu/a0016019.htm
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Sentenza della Cassazione: la dipendente deve dimostrare la fondatezza della sua tesi
ROMA - Molestie sul lavoro? Per non perdere il posto vanno dimostrate. Non basta diffondere la voce, nè è sufficiente il mobbing, la depressione reattiva del lavoratore che si sente ingiustamente trattato. Per "rendere vere" le accuse di una dipendente nei confronti del capo, vanno esplicitati, e dimostrati, i fatti "incriminati": il reperimento delle prove è comunque a carico della lavoratrice anche se la cosa risulta difficile a causa di "eventuali sacche di omertà sempre presenti o per altre ragioni". In caso contrario, la dipendente può essere accusata di avere interrotto, con la diffamazione, il rapporto di fiducia che necessariamente la lega al capo. Ed essere licenziata.
E' questo il parere della sezione Lavoro della Cassazione che ha respinto il ricorso di R.F., lavoratrice dipendente della "Henkel Spa", licenziata - dopo 11 anni di servizio - per giusta causa ed incompatibilità ambientale. La donna aveva rivolto, secondo l'azienda, accuse diffamatorie al capo del personale, accuse poi divulgate sulle colonne di un quotidiano locale. Licenziata, la signora ricorse in appello, ma il tribunale di Frosinone non ritenne sufficientemente provate le accuse e ratificò il licenziamento.
"Non è dubbio - sostiene ora la Cassazione - che le molestie sessuali poste in essere dal datore di lavoro o dai suoi stretti collaboratori nei confronti dei lavoratori soggetti al rispettivo potere gerarchico, costituiscono uno dei comportamenti più detestabili fra quelli che possono ledere la personalità morale, e come conseguenza, l'integrità psicofisica dei prestatori d'opera subordinati...", ma la prova "degli elementi essenziali" delle accuse resta a carico del lavoratore.
Prima del licenziamento, la Henkel - ritenendo infondate le accuse della dipendente contro il capo del personale dello stabilimento di Ferentino - aveva per due volte invitato con una lettera la lavoratrice a precisare le circostanze delle molestie delle quali la signora aveva dato notizia alla stampa locale tramite un comunicato ispirato dal marito sindacalista, ma non sottoscritto dal sindacato.
In primo grado il pretore di Frosinone aveva giudicato eccessivo il licenziamento della lavoratrice e ne aveva disposto la reintegrazione nel posto di lavoro. La Henkel però la licenziò nuovamente e il pretore nuovamente le ridiede il posto. La questione giunse così in secondo grado al tribunale di Frosinone che diede invece ragione alla Henkel sottolinenando che le accuse al caporeparto - additato come persecutore di R. per averle bloccato la carriera in seguito ai "no" alle sue "richieste extraprofessionali" - non essendo risultate veritiere, meritavano la perdita del posto di lavoro.
E' a questo punto che la signora R. decise di rivolgersi alla Cassazione. Che le ha dato torto.
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SENTENZA CASSAZIONE 143/2000
Non è sufficiente dimostrare l'esistenza di una depressione da "mobbing"
Licenziabile chi denuncia molestie senza prove
Non è sufficiente una sanzione disciplinare né il trasferimento ad altro reparto: la lavoratrice che ha mosso accuse non provate di molestie sessuali e discriminazioni ad opera del suo capo può essere licenziata poiché questo tipo di diffamazione, se privo di elementi che la supportino, lede gravemente il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e dipendente. E come prova delle persecuzioni subite se non si indicano gli specifici episodi non vale esibire certificati medici che attestano una sindrome depressiva da "mobbing".
Questo il principio stabilito dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso di una impiegata della "Henkel s.p.a." contro il licenziamento per giusta causa inflittole dalla società che aveva ritenuto non concrete le accuse che la donna aveva rivolto al capo del personale dello stabilimento di Ferentino. Il Pretore in primo grado aveva dato ragione alla donna, reintegrandola per ben due volte nel posto di lavoro; il Tribunale di Frosinone, invece, in qualità di giudice dellappello, aveva dato ragione alla società datrice di lavoro, sottolineando che le accuse al caporeparto, accusato di avere bloccato la carriera della donna in seguito ai "no" alle sue "richieste extraprofessionali", non essendo risultate veritiere meritavano la perdita del posto di lavoro. La Suprema Corte conferma la sentenza di appello, rilevando come la "sindrome da mobbing" non lede la capacità di intendere e di volere ma altera solo gli stati emotivi; ma il "mobbing" non è sufficiente da solo ad accusare il capo: occorrono prove concrete, fatti luoghi, testimoni che pur tenendo conto delle inevitabili "sacche di omertà" degli ambienti di lavoro dimostrino le colpe e supportino le accuse: in mancanza, viene inevitabilmente meno "lelemento della fiducia". (25 gennaio 2000)
Sentenza della Sezione Lavoro n.143/2000 depositata l8/1/2000.
La Corte suprema di Cassazione sezione lavoro
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ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul primo ricorso n. 12983/98 proposto da:
F. R., elettivamente domiciliata in Roma, Via Alberico II, n. 8, presso lo studio de1l'avvocato ROBERTO MUGGIA, che la rappresenta e difende, per procura speciale a margine del ricorso di cassazione;
ricorrente
contro
S.p.A. HENKEL, in persona del legale, rappresentante pro tempore, già elettivamente domiciliata in Roma, Via Silla, n. 3, presso lo studio dell'Avvocato Ferzi, e unitamente dall'Avv. Fabrizio Daverio, giusta delega in atti;
contro ricorrente e ricorrente incidentale
e sul secondo ricorso n. 14634/98 proposto da:
S.p.A. HENKEL, in persona del legale, rappresentante pro tempore, già elettivamente domiciliata in Roma, Via Silla, n. 3, presso lo studio dell'Avvocato Ferzi, e unitamente dall'Avv. Fabrizio Daverio, giusta delega in atti;
ricorrente incidentale
contro
F. R.
intimata
per l'annullamento della sentenza n.678/98 del Tribunale di Frosinone, R..N. 763/96;
udita nella pubblica udienza del 1.6.1998 la relazione della causa svolta dal Consigliere Dott. Giovanni Prestipino;
Sentito il P.M., nella persona del Sostituto Procuratore Generale Alberto Cinque, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, con assorbimento del ricorso incidentale.
Svolgimento del processo
Con ricorso del 17 gennaio 1995 R. F. conveniva la S.p.A. Henkel (già Henkel Sud) davanti al pretore del lavoro di Frosinone e chiedeva che fosse dichiarata l'inefficacia o la nullità o l'illegittimità del licenziamento che il 27 dicembre 1994 le era stato intimato dalla società, per giusta causa "e comunque per oggettiva incompatibilità ambientale", per avere la lavoratrice (secondo gli addebiti formulati nella contestazione), rivolto accuse diffamatorie nei confronti del capo del personale dello stabilimento di Ferentino, successivamente divulgate a mezzo stampa. La ricorrente, inquadrata nella categoria C prevista dal contratto collettivo nazionale di categoria, chiedeva la reintegrazione nel posto di lavoro, con la condanna della società convenuta sia al risarcimento del danno per le retribuzioni non percepite e per il danno biologico che gliene era derivato, sia all'inquadramento nella categoria B prevista dal suddetto contratto, di cui pure rivendicava l'appartenenza.
A sostegno del ricorso la lavoratrice esponeva che aveva svolto l'attività lavorativa con piena soddisfazione, sua e dei suoi superiori, fin dal giorno dell'assunzione in servizio avvenuta nell'anno 1974, ma che, a partire dall'anno 1985, quando era stato sostituito il capo del personale, aveva cominciato a subire un'opera di boicottaggio, con irrogazione di sanzioni disciplinari e arresto della carriera, poi culminata nel licenziamento, a causa del rifiuto che aveva opposto alle insistenti attenzioni di natura extraprofessionale rivoltele dal suo superiore.
Costituitasi in giudizio, la società convenuta contestava la fondatezza della pretesa avversaria, di cui chiedeva il rigetto.
Assunti il libero interrogatorio della ricorrente e la prova testimoniale dedotta da entrambe le parti, il Pretore, con sentenza dell'8 febbraio 1996, pur osservando che dall'istruttoria espletata non erano emersi elementi di prova a sostegno delle accuse mosse dalla lavoratrice al capo del personale, tuttavia rilevava che non esisteva alcun giustificato motivo di recesso per difetto, in relazione al comportamento posto in essere dalla medesima lavoratrice, dell'elemento soggettivo - e, pertanto, - dichiarava l'illegittimità del licenziamento, con la condanna della società Henkel a reintegrare la F. nel posto di lavoro e a corrispondere alla medesima cinque mensilità di retribuzione. Tutte le altre domande venivano, invece, rigettate.
A seguito della disposta reintegrazione nel posto di lavoro, la società Henkel intimava alla lavoratrice un nuovo licenziamento, che veniva impugnato davanti al medesimo Pretore di Frosinone con ricorso del 26 settembre 1996.
A conclusione di questo secondo giudizio, nel quale la società convenuta si era costituita contestando la fondatezza delle pretese fatte valere dalla ricorrente, il Pretore, con sentenza del 19 giugno 1997, rigettava il ricorso.
Entrambe le sentenze venivano impugnate dalle parti, la prima con appello principale della società Henkel e con appello incidentale della F., la seconda con appello della sola F..
Riunite le due cause, il Tribunale di Frosinone, con sentenza del 9 febbraio 1998 emanava le seguenti decisioni: accoglieva il ricorso principale proposto dalla società Henkel avverso la prima delle due sentenze, "restando assorbito il ricorso incidentale" (che in realtà veniva rigettato) e "rigettava" il ricorso proposto dalla F. avverso la seconda sentenza (che in realtà veniva dichiarato assorbito).
Il giudice di appello, per quanto ancora interessa, osservava, in primo luogo, che la F., dopo avere dato notizia delle accuse da lei mosse al capo del personale (poi dedotte a contestazione dell'intimatole licenziamento) con una lettera inviata alla S.p.A. Henkel Italia, capogruppo della datrice di lavoro S.p.A. Henkel Sud, e dopo avere concorso con il proprio marito, sindacalista della UIL, a darne diffusione a mezzo di un articolo pubblicato dalla stampa cittadina, non aveva provato la fondatezza di tali accuse, alle quali non era stata data specificità nelle lettere inviate alla società (di risposta alle contestazioni mossele); e, in secondo luogo, che le suddette accuse erano state smentite dall'istruttoria svolta dal primo giudice, dato che non era stata dimostrata alcuna circostanza che attestasse la natura asseritamente discriminatoria o persecutoria del comportamento tenuto dal capo ufficio. Il Tribunale aggiungeva che, attesa la potenzialità denigratoria delle accuse, poi risultate non veritiere, e pur tenuto conto della fragilità dello stato emotivo della lavoratrice -non tale, peraltro, da limitarne la capacità di intendere e di volere - tuttavia	 doveva ritenersi dimostrata la consapevolezza da parte della F. dell'effetto denigratorio insito nelle insinuazioni formulate, con la conseguenza che risultava parimenti provato il comportamento doloso o, quantomeno, gravemente colposo posto in essere dalla donna soprattutto in considerazione della mancata prova della veridicità delle accuse), tale da integrare gli estremi di un fatto illecito e da legittimare il recesso per giusta causa per essere venuto meno l'elemento della fiducia.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la F., che ha dedotto tre distinti motivi.
Ha resistito con controricorso la società Henkel, che ha proposto ricorso incidentale condizionato, articolato in diversi motivi.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
In primo luogo, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., va disposta la riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la stessa sentenza.
In secondo luogo, prima di esaminare le singole censure contenute nei due ricorsi, occorre brevemente soffermarsi su due distinte questioni, sulla prima delle quali soprattutto i difensori delle parti hanno dissertato anche in sede di discussione orale.
1. Non è dubbio che al lavoratore deve essere riconosciuto nei confronti del proprio datore di lavoro il diritto di critica, che può essere manifestato anche per mezzo di articoli su quotidiani o di interviste apparse sulla stampa, quale espressione del bene primario sancito dall'art. 21 della Costituzione. Come è stato più volte affermato da questa Corte, infatti, il suddetto diritto, sempre ché sia rispettata la verità dei fatti e siano poste in essere modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro, deve essere sempre garantito al prestatore d'opera subordinato, dovendo la critica, anche aspra, essere posta in relazione alla libertà di manifestazione del pensiero tutelata dalla Costituzione (v. fra le sentenze più recenti, Cass. 16 maggio 1998 n. 4952 e Cass. 22 agosto 1997 n. 7884).
Nel caso in esame, peraltro, il richiamo di tali principi giurisprudenziali non è del tutto pertinente.
Come è stato esposto in narrativa, l'articolo giornalistico apparso su un quotidiano non è stato sottoscritto dalla F. né la giornalista che lo aveva redatto aveva previamente affermato di avere intervistato la donna e di riportare, quindi, il pensiero della medesima su comportamenti disdicevoli, posti in essere dalla società datrice di lavoro nei confronti di terzi. Nell'articolo di stampa viceversa, come è pacifico, è stato indicato, come fonte della notizia, un comunicato della UIL a firma di un sindacalista (che poi è risultato essere il marito della F.) e sono stati riferiti non già fatti di carattere generale, ma comportamenti intimidatori e discriminatori attuati dal capo ufficio, per rancori personali, nei confronti della medesima F., la quale sarebbe stata sottoposta ad una vera e propria opera di persecuzione, di boicottaggio e di deprezzamento professionale,
Tenuto conto di questi rilievi, contrariamente a quanto ritengono le parti, non è necessario, nell'ambito del presente giudizio, disquisire sulla natura e sui limiti del diritto di critica che compete al lavoratore, essendo una siffatta discussione del tutto sterile in relazione all'oggetto della controversia.
2. Nell'atto introduttivo del primo dei due giudizi promossi dalla lavoratrice (quello di cui si discute) aveva formato oggetto di specifica allegazione l'assunto secondo cui la medesima era stata oggetto di molestie sessuali da parte del suo superiore gerarchico, in conseguenza delle quali, atteso il rifiuto opposto dalla donna alle altrui attenzioni, sarebbe derivato quel comportamento discriminatorio, intimidatorio e persecutorio che avrebbe, a sua volta, emarginato la F., causandole una sindrome depressiva (v., riguardo a quest'ultimo punto, le argomentazioni svolte dalla difesa della ricorrente principale, soprattutto nella memoria difensiva, nella quale è stato fatto riferimento a quel fenomeno che dalla più recente letteratura specialistica è definito mobbing, con un termine, che indica l'aggredire la sfera psichica altrui, mutuato dal linguaggio usato in altri Paesi in cui il fenomeno stesso da tempo è oggetto di studi particolari).
Ora non è dubbio che le molestie sessuali, poste in essere dal datore di lavoro o dal suoi stretti collaboratori nei confronti dei lavoratori soggetti al rispettivo potere gerarchico, costituiscono uno dei comportamenti più detestabili fra quelli che possono ledere la personalità morale e, come conseguenza l'integrità psicofisica dei prestatori d'opera subordinati. Non per nulla da parte di questa Carte, in una controversia in cui era stata dedotta da parte di una lavoratrice un siffatto atteggiamento del datore di lavoro, è stato ritenuto che fosse sorta nei confronti di quest'ultimo una vera e propria responsabilità contrattuale, con conseguente devoluzione della controversia stessa al giudice del lavoro, essendo stato sostenuto che l'obbligo previsto dalla disposizione contenuta nell'art. 2087 c.c. "non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma - come si evince da una interpretazione della norma in aderenza a principi costituzionali e comunitari implica anche il divieto di qualsiasi comportamento lesivo dell'integrità psicofisica dei dipendenti, qualunque ne siano la natura e l'oggetto e, quindi, anche nel caso in cui siano posti in essere atti integranti molestie sessuali nei confronti dei lavoratori (Cass. 17 luglio 1995 n. 7768, indicata nella memoria della ricorrente principale). Pertanto, qualora da un siffatto comportamento derivi un pregiudizio per il lavoratore, implicante la lesione del bene primario della salute o integrante quel tipo di nocumento che dalla dottrina e dalla giurisprudenza viene definito biologico, evidente è la responsabilità del datore di lavoro purché sia accertata l'esistenza di un nesso causale fra il suddetto comportamento, doloso o colposo, e il pregiudizio che ne deriva.
La prova degli elementi essenziali della fattispecie indicata (esclusa ovviamente la dimostrazione del dolo o della colpa, vertendosi in tema di responsabilità contrattuale) deve peraltro essere fornita dal lavoratore. Di tal che, pur non potendosi escludere che il reperimento delle varie fonti di prova possa risultare particolarmente difficoltoso a causa di eventuali sacche di omertà, sempre presenti, o per altre ragioni, tuttavia non è chi non veda che la mancata acquisizione della prova in questione, riguardo alle cause che hanno determinato la lesione dedotta ed agli effetti asseritamente derivati, impedisce al giudice l'accoglimento della domanda.
Ciò è avvenuto nel caso in esame, giacché la prova in questione, a fronte delle allegazioni che erano state formulate dalla lavoratrice, è stata ritenuta carente dal giudice di appello. Vero è che ora la F. con il terzo motivo del ricorso per cassazione (con il quale vengono dedotte la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. L. 15 luglio 1966 n. 604 [1]e 414 c.p.c. e che deve essere preso immediatamente in esame), sostiene che il Tribunale avrebbe errato nell'avallare il comportamento del primo giudice - il quale, secondo quanto si afferma nel ricorso, aveva ammesso solo una parte dei capitoli di prova che erano stati articolati nell'atto introduttivo del giudizio e, altresì, aveva ridotto la lista dei testimoni - ma è altrettanto vero che la ricorrente né indica che avverso la decisione del Pretore era stato da essa proposta uno specifico mezzo di gravame né precisa il contenuto dei capitoli di prova che non sarebbero stati ammessi nel giudizio di primo grado. Sotto questo profilo, quindi, la censura, ora formulata davanti a questa Corte, si rivela del tutto generica (e il motivo, per conseguenza, deve essere disatteso), ove si consideri, oltre tutto, che il Tribunale, su questo punto della causa, ha asserito - senza essere smentito dalle argomentazioni svolte nel ricorso per cassazione - che nel giudizio di appello dalla F. era stato chiesto che fossero assunti "testimoni non escussi dal Pretore soltanto a riprova dello stretto collegamento eziologico tra la condotta umiliante e mortificante per la lavoratrice, prolungata negli anni e culminata con il licenziamento, e la patologia riscontrata"; prova, codesta, che, in carenza della dimostrazione dei fatti invocati dalla F. per giustificare il suo comportamento successivo (le accuse rivolte al suo capo ufficio nella lettera di diffida e poi apparse nell'articolo giornalistico), giustamente non è stata ammessa dal giudice di appello in quanto ritenuta, a sua volta, generica e integrante una mera valutazione.
Pertanto, nonostante la dovizia di argomenti - di altissimo pregio sotto il profilo giuridico e, quindi, astrattamente condivisibili - svolti dalla meritevole (nuova) difesa della F., la sentenza impugnata deve rimanere ferma, essendo la motivazione che la sorregge, come fra breve si dirà, del tutto esente da vizi logici (oltre che da errori di diritto).
3. Ciò premesso, prendendo in esame le censure dedotte dalla ricorrente principale negli altri due motivi dell'impugnazione, con il primo di tale motivi la F. denuncia la violazione e la applicazione degli artt. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300 [2]e 2119 c.c.[3], oltre a vizi di. motivazione, in relazione all'art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c. e, nel lamentare che il Tribunale abbia ritenuto l'esistenza (e la gravità) dei fatti che le erano stati contestati nel ricordare che tali fatti erano stati individuati in una lettera diffida inviata alla società capogruppo dal proprio legale e in un articolo apparso su un organo di stampa, sostiene:
a) che le espressioni usate dal legale nella suddetta missiva non contenevano accuse diffamatorie nei confronti del capo ufficio, ma erano limitate a rappresentare un comportamento persecutorio e ad ottenere la soluzione dei problemi lavorativi esistenti;
b) che l'articolo apparso sul giornale cittadino era frutto non già di una intervista rilasciata da essa F., ma di una iniziativa personale del proprio marito, sindacalista della UIL, il quale aveva agito in difforme avviso da essa F., non iscritta al suddetto sindacato;
c) che la società datrice di lavoro avrebbe dovuto, prima, accertare l'esistenza dei fatti denunciati e poi appurarne (eventualmente) la non veridicità - adottare possibili misure organizzative mediante spostamento di reparto o trasferimento altrove della lavoratrice;
d) che le accuse contenute nella lettera di diffida erano rivolte non già alla società datrice di lavoro nel suo complesso, ma al capo del personale, che a quel tempo non aveva la qualifica di dirigente;
e) che la denuncia del comportamento vessatorio tenuto nei suoi confronti dal superiore integrava il normale e legittimo esercizio di critica a prescindere dalla veridicità dei fatti allegati;
f) che il Tribunale, per conseguenza, avrebbe errato nell'affermare che essa F. aveva avuto piena consapevolezza dell'effetto denigratorio risultante dalla lettera di diffida e, inoltre, nell'affermare che il licenziamento era da ritenersi giustificato a causa della incompatibilità ambientale.
Tutte queste censure sono prive di fondamento.
3.1. In sede di merito è stato accertato (ma ciò, oltre tutto, è pacifico in causa) che la c.d. lettera di diffida era stata sottoscritta anche dalla F. e non solo dal di lei legale e da questa circostanza è stata tratta la conseguenza che la lavoratrice non poteva pretendere di non vedersi addebitati gli effetti della (poi ritenuta) natura diffamatoria dello scritto. Il Tribunale, inoltre, previo apprezzamento del contenuto della lettera - apprezzamento che in quanto riservato al giudice del merito, sfugge al sindacato di legittimità, essendo stato congruamente motivato - ha appurato il carattere diffamatorio delle accuse rivolte al capo ufficio, avendo la F. attribuito a quest'ultimo, senza poi offrire alcuna concreta dimostrazione del suo assunto, "rancori personali, atteggiamenti vessatori e talora persecutori, determinanti uno stato di tensione ed ansia continua", consistenti in una "continua opera di boicottaggio" e tali da causare "ingiustificati deprezzamenti professionali".
3.2. Il Tribunale ha dato atto delle ragioni che lo hanno indotto a ritenere che la lavoratrice avesse concorso alla divulgazione, mediante la pubblicazione dell'articolo giornalistico, della vicenda che la riguardava. Nella sentenza impugnata è stato, infatti, osservato:
1) che nonostante che nell'articolo di giornale fosse stato sostenuto che la notizia era stata appresa da un comunicato diramato dal sindacato UIL, tuttavia l'organizzazione sindacale aveva smentito di avere assunto qualsiasi iniziativa in proposito;
2) che il D. (il sindacalista che aveva ispirato la pubblicazione della notizia) era il marito della F.;
3) che nell'articolo giornalistico. erano state testualmente riportate intere espressioni usate nella lettera di diffida inviata alla società, di cui si è sopra parlato.
Trattasi, come si vede, di una valutazione compiuta dal giudice di merito che, in quanto congruamente motivata, si sottrae al sindacato di questa Corte.
3.3. Il Tribunale ha appurato - e su ciò non c'è censura - che la F. non aveva aderito ai numerosi inviti con i quali la società l'aveva sollecitata a precisare le accuse contenute nella lettera di diffida e a "specificare tutte le circostanze di tempo e di luogo".
3.4. Senza che rilevi la mancanza della qualifica di dirigente per il capo del personale, le accusa (poi non provate), divulgate a mezzo stampa e comunicate alla società capogruppo, come il Tribunale ha accertato, ben potevano ledere, per la carica che il diretto destinatario ricopriva all'interno della società datrice di lavoro, l'immagine di quest'ultima
3.5. Richiamate le argomentazioni svolte nel punto 2, va rilevato che dal contenuto delle espressioni usate nella lettera di diffida e poi riportate nell'articolo di, stampa - "atteggiamento vessatorio e talora persecutorio" posto in essere dal capo ufficio "a causa di rancore
. determinante uno stato di tensione e di ansia continua"
.. continua e subdola opera di boicottaggio essendo costretta a ripetere incombenze già svolte"
.. sottoposizione a "ingiustificati e indiscriminati deprezzamenti professionali" - il giudice del merito ha ricavato, mediante l'esercizio del potere valutativo conferitogli dall'ordinamento, il convincimento della loro idoneità a ledere il prestigio e il decoro del capo ufficio (e, come si è detto, della stessa società datrice di lavoro). Ne deriva che non può essere in questa sede sindacato il corollario che lo stesso giudice di merito ha tratto da tale convincimento, e cioè che la mancanza di prova in ordine alla fondatezza delle accuse - che incombeva su chi le aveva formulate - aveva fatto venire meno, in modo irreparabile, l'elemento della fiducia.
Pertanto, come occorre sottolineare, anche su questo punto della causa è stata espressa da parte del Tribunale una valutazione dei fatti che hanno dato origine alla controversia, la quale, essendo stata sorretta da motivazione congrua e coerente, non può essere sottoposta al sindacato di legittimità.
3.6. Il Tribunale, con motivazione del tutto esauriente, ha tratto il convincimento della esistenza dell'elemento psicologico dagli elementi acquisiti alla causa e, in particolare, dai fatti sopra evidenziati la sottoscrizione della lettera di diffida da parte della medesima lavoratrice, la compartecipazione di quest'ultima alla pubblicazione dell'articolo giornalistico). Per altro verso, come è necessario aggiungere, il giudice di appello non ha affatto affermato che si era determinata una incompatibilità ambientale, ma ha ravvisato nel comportamento della lavoratrice un fatto di tale gravità da minare il rapporto di fiducia esistente fra le parti.
Avuto riguardo a tutti questi rilievi, non sussistendo i vizi denunciati con le censure sopra indicate, la decisione impugnata deve restare ferma.
4. Passando all'esame dell'ultimo motivo del ricorso principale (secondo in ordine cronologico), la F. deduce la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., oltre a vizi di motivazione, in relazione all'art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c. e lamenta che il Tribunale, dalla accertata esistenza di uno stato di psicosi reattiva che l'aveva colpita a causa del comportamento vessatorio posto in essere dal capo ufficio, non abbia tratto elementi per ritenere che vi fosse la possibilità di una diversa sanzione, di tipo conservativo e non espulsivo.
Anche quest'ultimo motivo è infondato.
4.1. Il Tribunale ha preso in considerazione anche questo aspetto della fattispecie esaminata ed ha affermato che "la consapevolezza dell'effetto denigratorio della lettera di diffida e della pubblicazione 	della stessa sul quotidiano appare
. evidente e lucidamente e pertinacemente coltivata dalla ricorrente", la quale "nelle due lettere di chiarimento lealmente sollecitate dall'azienda,
. non aveva esplicitato i fatti dei quali si sarebbe macchiato il capo ufficio". Lo stesso Tribunale, inoltre, in base agli elementi raccolti dal primo giudice, ha aggiunto che "tale pertinace e denigratoria insistenza accusatoria" non era stata sminuita dallo stato psicologico in cui verteva la F., dal momento che dalle risultanze probatorie era risultato uno stato emotivo e non una malattia limitante la capacità di intendere e volere.
Come si vede, anche su questo aspetto della controversia è stata espressa da parte del giudice di merito una valutazione che, essendo stata congruamente motivata, ora si sottrae al sindacato di questa Corte.
V. Ciò posto, passando ad esaminare il ricorso incidentale condizionato proposto dalla società Henkel, a rilevato che tale ricorso verte, in primo luogo, su questioni sulle quali il giudice di appello ha emanato decisioni favorevoli alla società. Il Tribunale, infatti. ha confermato la pronuncia di rigetto, resa dal Pretore, delle domande della F. aventi per oggetto il risarcimento del danno biologico e il riconoscimento di una superiore qualifica.
Tenuto conto di questi rilievi, non si vede per quale ragione la società Henkel con il ricorso incidentale ora prospetti (ancorché in via condizionata) censure relative a tali questioni, che, non avendo formato oggetto di impugnazione da parte della F. - che unica ne aveva interesse, attesa la sua totale soccombenza - sono ormai del tutto estranee a questo giudizio di legittimità. Le censure in questione, per conseguenza, debbono essere dichiarate inammissibili e identica pronuncia deve essere emessa sulla doglianza, del tutto generica, con la quale si deduce la mancanza di specificità di un motivo di appello a suo tempo formulato dalla F. (quello avverso la decisione con la quale il primo giudice aveva ritenuto la veridicità dei fatti divulgati): poiché nel ricorso incidentale non è riportato il passo del suddetto atto di appello - che ora viene, a sua volta, definito generico - la Corte non è in grado di valutare la fondatezza della censura.
Infine, la dichiarazione di inammissibilità deve pure riguardare quel motivo del ricorso incidentale che investe un'ulteriore pronuncia emessa dal giudice di secondo grado. Va al riguardo osservato che la decisione di "rigetto" dell'appello della F., emanata dal Tribunale con riferimento alla pronuncia del primo giudice inerente al secondo licenziamento (v. quanto è stato esposto in narrativa) deve essere estesa, avendone la sostanza - per essere mancata qualsiasi disamina del merito dell'impugnazione proposta dalla lavoratrice, in considerazione della conclusione data alla vicenda relativa al primo licenziamento - come una vera e propria pronuncia di assorbimento; con la conseguenza che una siffatta pronuncia, come questa Corte ha più volte affermato (v., da ultimo, Cass. 15 settembre 1996 n. 9175), non poteva indurre la società Henkel a proporre un ricorso incidentale (sebbene condizionato).
A conclusione di tutte le argomentazioni che precedono deve essere rigettato il ricorso proposto dalla F. e deve essere dichiarato inammissibile il ricorso incidentale condizionato della società Henkel.
Tenuto conto di tutte le pronunce emesse e della reciproca soccombenza (art. 92, secondo comma, c.p.c.), giusti motivi sussistono per compensare interamente fra le due parti le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Compensa fra le parti le spese del giudizio di cassazione. (
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Depositato in cancelleria l'8 gennaio 2000.
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