IL DOCUMENTO DI PROGRAMMAZIONE ECONOMICO-FINANZIARIA 2000-2003

 

1. Introduzione
2. Il quadro strutturale dell’economia italiana
2.1 L’andamento delle stime negli ultimi DPEF
2.2 Indicatori economici programmatici per il quadriennio 2000-2003
3. La finanza pubblica
3.1 Gli obiettivi programmatici
3.2 La struttura degli interventi correttivi
4. Il sostegno agli investimenti
5. Le misure fiscali
6. Ricerca e trasferimento tecnologico
7. Piccole e medie imprese
8. Politiche di internazionalizzazione
9. Energia
10. Ambiente
11. Occupazione
12. Politiche per il mezzogiorno

1. Introduzione

Il documento di programmazione economico-finanziaria 2000-2003 compie un’analisi approfondita dell’attuale situazione economica del Paese e dello stato di salute dei conti pubblici. Rileva innanzitutto segnali preoccupanti e reali per la nostra economia senza, però, trarne le dovute conseguenze, in particolare per quanto attiene alle strategie per i nodi strutturali della situazione presente.

Il segnale più evidente è la previsione di un basso tasso di crescita del Prodotto interno lordo sul quale influisce, a nostro giudizio, non tanto l’attuale fase negativa del ciclo economico quanto una domanda interna che stenta a trovare spazi di crescita e la debolezza sul fronte delle esportazioni.

Il tasso di crescita delle esportazioni, in particolare, rivela la debolezza strutturale del sistema produttivo italiano, caratterizzato dalla presenza di imprese sottodimensionate e specializzate in settori a basso valore aggiunto. D’altra parte, la svalutazione dell’Euro nei confronti del dollaro non ha portato benefici sia perché le esportazioni italiane sono indirizzate principalmente nell’area dell’Euro e sia perché, a livello aggregato, l’Europa presenta un grado di apertura al Commercio estero molto basso (valutato intorno al 15%).

Tutto ciò si tradurrà nei prossimi anni, inevitabilmente, in una perdita di competitività dei prodotti italiani anche rispetto ai nostri concorrenti europei, accentuando il divario che già ci divide dalle maggiori economie europee.

Nell’attuale fase negativa del ciclo, politiche di bilancio e fiscali espansive non sono utilizzabili a causa del carattere restrittivo degli impegni contenuti nel Patto di stabilità. Il rispetto degli obiettivi di Disavanzo in rapporto al PIL si traducono paradossalmente in una spesa pubblica con effetti prociclici.

Sarebbe opportuno dare una diversa interpretazione agli impegni del Patto di stabilità, consentendo agli Stati membri interventi a carico del Bilancio dello Stato, in presenza di fasi congiunturali negative. Nel rispetto degli impegni presi con il patto di stabilità, occorrerebbe, quindi, distinguere tra le correzioni strutturali della spesa pubblica rispetto a manovre dirette a contrastare le fasi congiunturali.

Considerato lo scarso margine di intervento attraverso la spesa pubblica, il Governo punta sugli investimenti per il riavvio dell’economia stimandone che il tasso di crescita raggiunga il 3,7% nel 1999 e il 5,2% nel prossimo anno. Riteniamo, però, che non ci siano le condizioni di ripresa degli investimenti privati per due ragioni. Innanzitutto perché anche con l’attuale livello, peraltro in risalita, dei tassi di interesse non si sono registrati aumenti visibili degli investimenti. Inoltre, questi si dimostrano più sensibili alle prospettive di mercato che alle variabili finanziarie. Dall’altro, le prospettive di redditività degli investimenti sono fortemente compresse dall’eccessiva pressione fiscale registrata in questi anni sulle imprese.

È vero che tale pressione è allineata con altri Paesi europei, ma a differenza di questi ultimi il nostro Pil incorpora una quota maggiore di economia sommersa. Quindi, la pressione fiscale risulta essere più alta sulle imprese che correttamente adempiono agli obblighi fiscali e contributivi rispetto ai nostri concorrenti.

In questa situazione, le indicazioni sugli interventi necessari a correggere le difficoltà strutturali del Paese sembrano vaghe.

Non c’è, innanzitutto, una precisa indicazione di un percorso a medio termine verso una consistente riduzione della pressione fiscale sulle imprese. Le sole misure indicate, riguardo l’Irap e la Dit, non sono sufficienti ad invertire significativamente la tendenza.

Nei confronti della PMI, si riconosce l’esistenza di elementi strutturali che ne determinano il sottodimensionamento ma nel documento non sono indicati particolari interventi, se si esclude l’accenno al capitale di rischio.

Occorre sottolineare da subito come tutte la questione della capitalizzazione delle imprese ben difficilmente potrà essere efficacemente risolta con il solo ricorso ad un mercato dei capitali per le PMI che , oggi, non esiste.

 

2. Il quadro strutturale dell’economia italiana

2.1 L’andamento delle stime negli ultimi DPEF

Il Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2000-2003 corregge le stime per il 1999 contenute nel documento di programmazione economico-finanziaria dell’anno scorso.

 
Previsione 1999
(DPEF 1999-2001)
Nuova previsione 1999
(DPEF 2000-2003)
Crescita PIL reale
2,7
1,3
Tasso di inflazione
1,5
1,3
Crescita occupazione
0,7
0,5
Saldo netto P.A./PIL
-2,0
-2,4

Sono già alcuni anni che le stime di crescita degli indicatori economici vengono, l’anno successivo, riviste al ribasso. Ciò sembrerebbe indicare che tali stime inducono a definire interventi meno incisivi di quelli che a posteriori si sarebbero rilevati necessari per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Data l’esperienza passata rimane da verificare l’attendibilità di tali stime per il prossimo anno stante la situazione economica descritta per il 1999.

Tassi di variazioni dei principali componenti del PIL 1999
 
Domanda interna
  • Consumi

  • Investimenti

1,9

1,4

3,7

Esportazioni
1,3
Importazioni
2,4

Le previsioni per il 1999 destano forti preoccupazioni. La crescita del PIL (1,3%) si assesta sul valore più basso su Eurolandia. Appare preoccupante il tasso di crescita delle esportazioni previsto che denota una progressiva perdita di competitività del sistema produttivo italiano rispetto alle previsioni di crescita del mercato mondiale.

Inoltre, appare difficile prevedere una ripresa degli investimenti dell’ordine del 3,7%, quando fino ad oggi il tasso di crescita degli investimenti è stato prossimo allo zero.

Con questi dati siamo e confermeremo di essere uno dei paesi più poveri di Eurolandia. La BCE ha appena diramato il bollettino mensile nel quale sono illustrati i tassi di crescita dei Paesi dell’area Euro, nel corso degli anni novanta. L’Italia ha avuto un tasso medio di crescita dell’economia pari all’1,3%, nel periodo 1994-1998, inferiore alla media dell’area Euro, pari al 2,3%, e comunque il più basso di quello di tutte le altre nazioni del club della moneta unica.

 

2.2 Indicatori economici programmatici per il quadriennio 2000-2003

Le stime indicate dal Governo sul prossimo quadriennio sono:

Quadro Macroeconomico programmatico 2000-2003
2000
2001
2002
2003
Crescita PIL reale
2,2
2,6
2,8
2,9
tasso di inflazione
1,2
1,1
1,0
1,0
crescita occupazione
0,6
0,8
0,8
0,9
saldo netto P.A./PIL
-1,5
-1,0
-0,6
-0,1

La previsione, per il 2000, di un tasso di crescita del PIL pari al 2,2%, in assenza di interventi correttivi, appare difficilmente realizzabile.

Soprattutto in considerazione che tali previsioni si basano sul migliorato contesto mondiale ed europeo, su bassi tassi di interesse (tasso Bot intorno al 4%) e sulla previsione che il tasso di crescita degli investimenti, per il 2000, possa essere del 5,2%.

I primi due fattori sono esogeni e quindi sottratti all’azione del Governo.

D’altra parte appare improbabile una netta modifica delle tendenze in atto, con riguardo agli investimenti, vista la debolezza della domanda interna e i recenti segnali di risalita dei tassi di interesse.

Il livello contenuto di crescita delle esportazioni indica che le iniziative intraprese sono inefficaci per modificare una strutturale perdita di competitività della nostra economia.

In queste condizioni, riteniamo, invece, necessaria un’azione più decisiva in direzione del sostegno allo sviluppo della base produttiva volta a realizzare tassi di crescita del PIL superiori a quelli indicati dal Governo.

 

3. La finanza pubblica

3.1. Gli obiettivi programmatici

Obiettivo primario del Governo è il rispetto degli impegni assunti in sede europea sulla progressiva riduzione del rapporto indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche e Prodotto nazionale lordo:

Quadro programmatico in % sul PIL
2000
2001
2002
2003
Indebitamento netto P.A.
1,5
1,0
0,6
0,1
Interessi
6,5
6,1
5,7
5,3
Avanzo primario
5,0
5,1
5,1
5,2
Debito
112,9
109,1
104,6
100,0

La correzione richiesta per riportare nel 2000 l’avanzo primario al 5% del PIL è pari quindi allo 0,5% del PIL, che corrisponde a 11. 500 miliardi di lire cui vanno aggiunti i 3.500 della spesa per il sostegno dello sviluppo. Tale importo va ripartita per circa il 40 % alla riduzione del prelievo tributario e per circa il 60% al finanziamento di nuove spese correnti e in conto capitale. La ripartizione indicata è di 1.500 miliardi di lire per le spese in conto capitale, di 1.000 per l’agevolazione sugli investimenti (DIT) e altri 1.000 miliardi per il rinnovo dei contratti pubblici. Il totale della manovra dovrebbe, quindi, ammontare a 15.000 miliardi di lire.

Le stime tendenziali sui saldi di finanza pubblica sono state costruite a "legislazione vigente" senza tener conto di eventuali rinnovi dei contratti per il pubblico impiego. Non considerando tali rinnovi, a meno che il Governo non espliciti la sua volontà politica a non concederli, se non nella misura di 1.000 miliardi di lire previsti nella spesa per il sostegno dello sviluppo, appare manifestamente irrealistica la correzione proposta dell’0,5% del PIL. Pertanto, è presumibile che l’obiettivo di un avanzo primario al 5% del PIL nel 2000, difficilmente verrà raggiunto e risulterà insufficiente la manovra correttiva proposta.

Come osservato negli anni scorsi, continua la politica di aggiustamento dei conti pubblici facendo leva su consistenti avanzi primari per consentire un graduale rientro del Debito sul PIL, fissato per il prossimo anno al 113%.

Il patto di stabilità deve essere interpretato in senso dinamico permettendo, nelle fasi di difficoltà del ciclo, una politica di sostegno pubblico agli investimenti.

Nelle fasi del ciclo negativo, il rigido rispetto del parametro Deficit/PIL per l’incomprimibilità, nel breve periodo, della spesa corrente determina una riduzione della spesa in conto capitale aggravando la fase negativa del ciclo.

Rimane, quindi, preclusa la possibilità di attuare politiche di contrasto delle fasi negative del ciclo.

Nelle fasi di bassa crescita economica e di disoccupazione, sono necessari interventi strutturali che rimuovano gli ostacoli alla crescita. Occorre pertanto promuovere azioni più efficaci che riformino i comparti del settore pubblico che alimentano oggi la spesa pubblica.

 

3.2. La struttura degli interventi correttivi

La struttura degli interventi correttivi
Gli interventi sono diretti a ridurre la velocità della crescita della spesa corrente. Questi che saranno proposti con la prossima legge finanziaria riguarderanno:
  • la revisione degli strumenti di programmazione delle assunzioni e dei concorsi interni dei dipendenti dell’amministrazione pubblica;

  • gli strumenti di sostegno del patto di stabilità interno;

  • il controllo degli acquisti di beni e servizi e delle altre spese di funzionamento delle amministrazioni centrali tramite il controllo di gestione e il rafforzamento degli incentivi alla riduzione dei costi,

  • potenziamento delle iniziative dirette ad aumentare il concorso dei privati all’esercizio di attività e di servizi pubblici sia attraverso il finanziamento dei progetti di investimento sia attraverso la esternalizzazione di alcuni segmenti di attività pubblica,

  • la valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli enti pubblici

  • ulteriori azioni di razionalizzazione delle istituzioni erogatrici di trattamenti previdenziali e assistenziali e di rafforzamento della previdenza complementare.

 

4. Il sostegno agli investimenti

La manovra prevede interventi correttivi a sostegno per lo sviluppo solo per 2.500 miliardi di cui 1.500 miliardi di lire per la spesa in conto capitale e 1000 miliardi per l’agevolazione sugli investimenti.

Tale ammontare si limita a confermare il contributo delle spese in conto capitale al 4% del PIL, considerata la percentuale del 3,9% per il 1999.

L’obiettivo che, comunque, si prefigura il Governo per il triennio 2000-2002 è quello di consentire nuove autorizzazioni di spesa e investimenti attivabili per circa 30.000 miliardi. In termini di cassa, viene indicata una spesa aggiuntiva pari a 14.500 miliardi lire. Di tale spesa, è immediatamente stanziata la prima rata che risulta essere di importo più basso nel quadriennio considerato, rinviando la parte più consistente agli esercizi futuri:

 
2000
2001
2002
2003
Sostegno spese in conto capitale
1.500
3.000
5.000
5.000

La scelta di stralciare tutto il capitolo di interventi strutturali sul sistema pensionistico e sulla sanità ha come immediata conseguenza quello di far mancare risorse per gli interventi al sostegno dello sviluppo.

Interventi per il sostegno delle spese in conto capitale
Il Governo prevede interventi per uno sviluppo programmatico delle spese in conto capitale. Gli interventi riguarderanno:
  • le aree depresse,

  • la quota di cofinanziamento nazionale dei programmi di investimento dell’Unione europea,

  • i programmi di spesa in conto capitale.

 

5. Le misure fiscali

Tra le barriere allo sviluppo rilevate nel documento allo sviluppo delle PMI assume particolare importanza quella relativa alla pressione fiscale.

In pieno accordo con quanto sostenuto dal Governatore della Banca di Italia è auspicabile una riduzione sensibile della pressione fiscale sulle imprese.

Riteniamo che non sia sufficiente la riduzione prevista nel documento, considerato che tale riduzione dovrebbe poggiare in via esclusiva sul meccanismo dell’agevolazione sugli investimenti (cd."Visco") e sul meccanismo della decontribuzione, nella misura, comunque insufficiente, fissata dalla normativa per l’anno in corso e non ancora operante, finanziata dalla carbon tax.

Inoltre, le risorse reperite dalla lotta all’evasione sono destinate in via principale al sostegno delle famiglie e solo in via residuale al sostegno dello sviluppo economico del Paese.

Le linee della politica tributaria
Nel quadriennio 2000-2003 gli indirizzi fondamentali del Governo saranno volti al:
  • completamento del processo della riforma fiscale (legge 133/99: sulla perequazione razionalizzazione e federalismo fiscale);
    1. aumento detrazioni IRPEF e consolidazione dei provvedimenti di sgravi sulla prima casa di proprietà e per i fitti;

  • realizzazione della riforma dell’amministrazione finanziaria;

  • proseguimento riduzione carico contributivo in applicazione della carbon tax (legge 448/98);

  • riduzione della pressione tributaria nei limiti compatibili con l’equilibrio dei conti pubblici anche attraverso la lotta all’evasione;
    2. copertura finanziaria per 1000 miliardi, per ciascun degli anni 2000 e 2001, dell’agevolazione sugli investimenti (art.2 l.133/99);
    3. accelerazione Dit;
    4. riduzione aliquota dell’IRPEF dal 27% al 26% per il secondo scaglione di reddito.

La scelta del Governo di attuare la riduzione della pressione fiscale sulle imprese tramite la riforma attuata con l’introduzione dell’IRAP e della DIT rischia di non cogliere l’obiettivo proprio nei confronti delle imprese della piccola e media dimensione.

Una prima valutazione sull’impatto dell’IRAP evidenzia alcune aree problematiche legate agli effetti differenziali dell’applicazione dell’imposta che penalizzano le piccole e medie imprese.

Dai dati raccolti presso le nostre associate abbiamo rilevato che le imprese con elevato costo del lavoro e oneri finanziari sul valore aggiunto, registrano mediamente un aggravio del prelievo complessivo. Purtroppo dobbiamo notare, con preoccupazione, che tali caratteri sono fortemente presenti proprio nelle piccole e medie industrie.

Al contrario il prelievo complessivo derivante dalla riforma si riduce per le aziende ad alta intensità di capitale caratterizzate da una struttura del valore aggiunto in cui vi è scarsa incidenza del costo del lavoro e degli oneri finanziari

Ai fini del costo del lavoro è stato rilevato un effetto di semplice sostituzione tra l’ammontare degli oneri sanitari soppressi e l’imposta IRAP calcolata sulla componente lavoro. Si registra un aggravio per le aziende che godevano in parte della fiscalizzazione. Si rileva in particolare che le aziende con un’alta percentuale di costo del lavoro sul valore aggiunto ed alto costo unitario del lavoro subiscono mediamente un aggravio impositivo

In generale, la scelta di penalizzare da subito l’indebitamento finanziario ha introdotto un grave elemento di discriminazione tra grandi e piccole e medie imprese per due ordini di ragioni legate alla struttura finanziaria delle pmi e all’esistenza di mercati finanziari.

Con riguardo alla struttura finanziaria delle imprese il ricorso all’indebitamento è spesso una necessità quando si considerino le esigenze di finanziamento legate al funzionamento. Soprattutto il ricorso all’indebitamento diventa una necessità a fronte dell’impossibilità per le PMI di diversificare le proprie fonti di finanziamento per la mancanza concreta di modalità di accesso ai mercati finanziari.

Pertanto, si ribadisce che il riequilibrio tra le scelte di finanziamento oltre a passare tramite lo strumento fiscale deve passare attraverso una maggiore offerta di strumenti finanziari alternativi.

Quindi, riteniamo che la riforma abbia già fatto la sua parte nella direzione di correggere il vantaggio fiscale accordato in precedenza all’indebitamento. Ora, occorre lavorare per la realizzazione degli strumenti finanziari cui le PMI possano ricorrere per la raccolta delle risorse finanziarie necessari al rafforzamento dell’apparato produttivo e allo sviluppo economico.

Inoltre, con riguardo all’incidenza degli oneri finanziari sul valore aggiunto è possibile constatare che maggiore è la quota di questi ultimi sul valore aggiunto più è alta l’IRAP che, essendo indeducibile ai fini IRPEG, determina un aumento della base imponibile ai fini di quest’ultima imposta.

Con riferimento alle agevolazioni collegate alla Dual income tax (moltiplicatore e super-Dit) possono essere fatte alcune osservazioni.

Il primo anno di applicazione della Dit ha dimostrato come il processo di accumulazione del capitale è molto lento e di fatto ha scoraggiato l’iniziativa proprio delle imprese più bisognose di ricorrervi perché il rendimento della capitalizzazione è basso per remunerare il rischio d’impresa.

Al fine di rendere la Dit più efficace, sarebbe opportuno introdurre un premio per la compensazione del maggior rischio, previsto nella misura massima del 2% dal decreto legislativo, che dovrebbe essere innalzato per le piccole e medie imprese riconoscendo la maggiore rischiosità dell’attività da loro svolta, in analogia con quanto il mercato creditizio evidenzia nell’applicare uno spread tra il costo del denaro prestato alle grandi imprese e alle piccole imprese. In tal modo verrebbe incentivato lo sforzo all’autofinanziamento anche da parte delle piccole e medie imprese poiché risulterebbe più alto il tasso di rendimento complessivo che incorpora il maggior rischio dell’investitore nei confronti di realtà aziendali di piccola dimensione generalmente sottocapitalizzate e fortemente indebitate.

In conseguenza di questo problema, è stato introdotto il moltiplicatore di cui l’efficacia dipenderà dalla misura che verrà stabilita. Permangono comunque le perplessità sull’effettiva capacità delle PMI di apportare nuovo capitale, stante la cronica dipendenza dall’indebitamento bancario per il finanziamento dell’attività di impresa. È evidente, infatti, che potendosi ipotizzare incrementi limitati di capitale da parte delle piccole e medie imprese la misura di tale moltiplicatore dovrà essere particolarmente favorevole per questa specifica categoria, eventualmente differenziandolo in rapporto alla dimensione d’impresa.

Senza dimenticare che il limite previsto in rapporto al capitale investito potrebbe ridurre l’utilità della norma proprio per le imprese maggiormente sottocapitalizzate.

Quanto, poi, alla misura introdotta per incentivare gli investimenti, esprimiamo forti perplessità sulla sua capacità di promuovere investimenti aggiuntivi date le condizioni stringenti che debbono verificarsi per poter accedervi.

Poiché il meccanismo dell’agevolazione prevede che solo in presenza di investimenti che superino la media di quelli effettuati per beni della stessa tipologia negli ultimi anni l’azienda possa trarre un beneficio fiscale, è evidente che tale classificazione riduce gravemente l’effetto espansivo dell’agevolazione.

Tutto ciò è in palese contrasto con gli obiettivi del Governo stesso di incentivare le imprese a rinnovare il parco dei beni strumentali.

Per ottenere un effetto incisivo sulla ripresa degli investimenti dovrebbe essere consentita la deduzione dei soli ammortamenti riferiti ai beni oggetto degli stessi.

Un secondo vincolo è rappresentato dalla capienza del reddito. Nell’anno in cui vengono effettuati gli investimenti, tale situazione si aggrava determinando un reddito complessivo netto che potrebbe non essere capiente per l’agevolazione. L’insufficienza del reddito determinerà la perdita del beneficio, non essendo consentito il riporto in avanti dell’eccedenza agevolabile.

Inoltre, l’assenza della possibilità di utilizzarne i benefici anche in anni successivi a quello in cui sono stati effettuati gli investimenti, quando il reddito imponibile non è capiente, limita fortemente l’efficacia anticongiunturale del provvedimento con particolare riferimento alle piccole e medie imprese.

Infine, anche se si verificassero le condizioni necessarie per l’accesso all’agevolazione, le imprese non vedranno concretizzarsi, in termini finanziari, i benefici se non dopo il biennio 1999-2000.

 

6. Ricerca e trasferimento tecnologico

Sebbene si sottolinei l’importanza della ricerca quale fattore di riposizionamento del nostro sistema industriale scarsa attenzione è dedicata ai temi dell’innovazione.

In un sistema come quello Italiano caratterizzato da piccole dimensioni medie d’impresa - che si traducono in scarsa capacità di ricerca formalizzata - e specializzazione su settori tradizionali a basso contenuto di ricerca, appare invece necessario dedicare attenzione alla crescita dei livelli tecnologici delle nostre produzioni.

Le due politiche sono complementari: più direttamente legata ad un mutamento nella specializzazione industriale verso settori high-tech quella che potrebbe definirsi una politica di ricerca industriale; tesa a sostenere l’innalzamento del livello tecnologico delle produzioni esistenti, una politica di innovazione. Appare chiaro il legame sia logico che temporale: la prima ha un orizzonte di medio-lungo termine, mentre la prima trova applicazione nel periodo intermedio e deve, necessariamente, accompagnare i mutamenti strutturali.

Tali interventi dovrebbero coniugano strumenti di politica industriale e di politica di ricerca, rafforzando una logica di integrazione delle due prospettive e cercando di conciliare ampiezza di impatto delle misure - dimensione necessaria per quelle di innovazione - con selettività e qualità - elemento centrale per quelle di ricerca.

Infine, in particolare per le misure sull’innovazione, occorre identificare interventi che coinvolgano il sistema bancario, essendo difficile immaginare un grado sufficiente di "copertura" del sistema industriale con i ristretti limiti di bilancio esistenti.

 

7. Piccole e medie imprese

Il ruolo cruciale delle pmi è sottolineato dal documento del Governo, anche se in negativo. I dati sulla dimensione media e sulle tendenze alla crescita delle nostre imprese, peraltro recentemente sottolineate anche in sede Eurostat, dimostrano chiaramente come sia non più rinviabile un’azione incisiva di sostegno ai processi di crescita di questo soggetti. Le preoccupazioni aumentano inoltre accostando questi dati a quelli sulla debolezza competitiva sui mercati esteri, riflesso prevedibile delle difficoltà che incontrano in particolare le imprese di minori dimensioni a muoversi verso forme più strutturate di presenza (accordi, joint-ventures o investimenti diretti).

Sull’intera materia, però, partendo dall’indicazione che l'insufficienza generalizzata di capitale di rischio è tra le maggiori cause delle difficoltà di sviluppo delle piccole e medie imprese le indicazioni del Governo risultano vaghe.

Si fa riferimento, in generale, a misure atte a "favorire l’ampliamento delle risorse finanziarie a disposizione delle pmi al fine di permettere il ribilanciamento della struttura finanziaria", richiamando in modo esplicito il ruolo della borsa per le pmi.

Sorprende questo unico richiamo visto che la situazione attuale vede invece ancora molto profonda la dipendenza dal capitale di credito. Per agire sulla domanda di investimenti, nel breve termine, appare necessario affrontare tre questioni:

Appare più realistico dunque disegnare un percorso che privilegi un’evoluzione della struttura del capitale di credito come passaggio preliminare verso l’apertura ai capitali di rischio.

D’altra parte, ciò è motivato anche dalla considerazione che se il processo di rinnovamento del mercato dei capitali avviatosi negli ultimi anni in Italia ha ridotto la rigidità del sistema facilitando l'afflusso di capitali alle imprese, per le piccole e medie imprese la situazione non è mutata sensibilmente.

In particolare, sono poco sviluppati gli intermediari specializzati negli investimenti nel capitale di rischio delle piccole imprese; sono insufficienti gli investitori istituzionali (quali ad esempio i fondi chiusi o i fondi pensione); è assente una politica di incentivazione fiscale per tale tipo di investimenti; manca un mercato per la negoziazione dei titoli delle piccole imprese; quello, recentemente costituito, per le pmi ad elevato potenziale di crescita non rappresenta - per le caratteristiche strutturali che ne fanno un mercato di "nicchia" - una valida possibilità per segmenti rilevanti del nostro panorama industriale di minori dimensioni.

Le difficoltà dell'industria minore derivano, in gran parte, dall'insufficiente flusso di informazioni. Queste, elemento chiave per mobilitare capitale di rischio, sono soggette a economie di scala: a parità di rendimento è meno conveniente investire in più piccole imprese che in una sola grande.

Le aziende minori, in merito alle quali non si hanno informazioni "pubbliche", incontrano perciò difficoltà a finanziarsi sul mercato. Da un lato sono costrette a garantire sui loro titoli rendimenti più elevati rispetto alle imprese di dimensione nazionale; dall'altro la scarsità di informazioni non è comunque di stimolo per gli investitori.

Occorre dunque incentivare la maturazione finanziaria dell'imprenditoria minore, abituare l'imprenditore ad abbandonare la tradizionale gestione familiare dell'impresa e ad aprirsi a forme di intervento di terzi con tutti i connessi oneri di informazione e controllo.

La via più percorribile, in conclusione, sembra rimanere dunque quella dell'evoluzione del rapporto banca-piccola impresa, orientandolo verso strategie che comportino la traslazione di una quota maggiore di rischio sull'intermediario, il riequilibrio della struttura finanziaria delle aziende e la sperimentazione di strumenti che avviino la costituzione di un mercato dei capitali.

 

8. Politiche di internazionalizzazione

Il documento sostiene la necessità di sorreggere il processo di internazionalizzazione del "Sistema Italia". Una strategia di internazionalizzazione seria va infatti inserita in una "logica di sistema" che metta a disposizione delle aziende strumenti promozionali, finanziari, assicurativi, di sostegno, formativi, al fine di ottimizzare la loro competitività.

Il processo di internazionalizzazione delle pmi italiane è tuttora frenato dalla difficoltà di utilizzo degli strumenti a ciò preposti, difficoltà che si sostanziano nella complessità e lentezza dell’iter procedurale di accesso alle agevolazioni all’export, nell’esistenza di molteplici soggetti con competenza in materia di internazionalizzazione, nello scarso sostegno alle pmi da parte delle banche d’affari e delle banche d’investimento in particolare per quanto riguarda le analisi finanziarie e la costruzione di piani finanziari adeguati, un’incompleta e poco aggiornata diffusione delle informazioni sulle opportunità in essere.

 

9. Energia

I processi di privatizzazione devono svilupparsi in un contesto di piena liberalizzazione con regole ben precise che consentano a tutti gli utenti di approvvigionarsi a pari condizioni.

Il recepimento della direttiva comunitaria 96/92/CE ha liberalizzato solo in parte il mercato dell’energia elettrica, che è un fattore il cui costo minaccia sensibilmente la possibilità delle imprese nazionali, soprattutto di media e piccola dimensione, di affrontare ad armi pari l’incremento del grado di competitività del mercato globale. Le soglie di consumo previsti dal D.Lgs. 79/99 per poter accedere al mercato libero sono inaccessibili alle PMI il cui consumo medio di energia elettrica si attesta intorno ai 0.3-0.5 GWh/annuo.

 

10. Ambiente

Occorre che il Governo consideri le questioni ambientali e della sicurezza quali elementi centrali per la politica di sviluppo delle imprese.

Al riguardo è quindi necessaria una azione volta a favorire e ad incentivare l’introduzione di tecnologie finalizzate alla riduzione dell’impatto dell’attività delle imprese sull’ambiente e prevedere nuovi strumenti economici volti ad orientare alla tutela ambientale le scelte delle imprese e dei consumatori. In materia di sicurezza del lavoro prevedere misure di sostegno e premiali al fine di agevolare l’attuazione delle norme di prevenzione e la messa a punto dei programmi delle misure ritenute opportune per garantire nel tempo il miglioramento dei livelli di sicurezza.

 

11. Occupazione

Il Documento di programmazione economica-finanziaria per gli anni 2000-2003 ricorda che negli anni novanta, i tassi di partecipazione ed i tassi di occupazione nei Paesi dell’Europa continentale sono stati al di sotto di quelli registrati negli altri Paesi industrializzati, e in particolare molto al di sotto di Canada, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti d’America. In Italia i tassi di partecipazione e occupazione hanno registrato i valori più bassi fra i Paesi del G7.

Nel Consiglio Europeo di Lussemburgo del dicembre 1997 i Paesi dell’EU hanno stabilito una strategia comune in termini di occupazione da verificare annualmente nei Piani Nazionali d’Azione per l’occupazione (NAP) articolati su quattro linee direttrici comuni:

- Pilastro I: migliorare l’occupabilità (formazione e miglioramento del capitale umano, misure attive a favore dei giovani e dei disoccupati di lunga durata);

- Pilastro II: sviluppare l’imprenditorialità (riforma dei mercati, misure dirette a favorire la creazione di nuovi posti di lavoro);

- Pilastro III: incoraggiare l’adattabilità delle imprese e dei loro lavoratori (modernizzazione dell’organizzazione del lavoro, modificazione degli orari di lavoro, nuove forme di contratti);

- Pilastro IV: rafforzare le politiche in materia di pari opportunità (misure dirette ad accrescere il tasso di occupazione, misure dirette a ridurre l’esclusione dei gruppi più deboli e la discriminazione).

Il DPEF ricorda inoltre che i principali interventi legislativi hanno riguardato soprattutto il primo e il terzo pilastro con importanti innovazioni quali la modifica della regolamentazione dei contratti di formazione e lavoro e a tempo determinato e l’introduzione dell’istituto del lavoro interinale. In riposta a tali iniziative, i contratti di lavoro atipici sono aumentati considerevolmente. Il ricorso a queste tipologie contrattuali è stato favorito sia dalle modifiche alle contribuzioni assistenziali e agli accantonamenti previdenziali per i lavoratori part-time, sia dall’interruzione degli automatismi che permettevano di trasformare i contratti a termine in contratti a tempo indeterminato.

Le osservazioni da proporre su questi temi sono succintamente le seguenti:

Pilastro I: occupabilità

La Commissione ci invita a mantenere il nostro impegno a riformare i nostri incentivi all’occupazione ed i nostri sistemi di sostegno al reddito, passando da un approccio attendista e passivo, all’attuazione di politiche attive.

A questo riguardo, una tappa fondamentale è stata l’approvazione del "collegato ordinamentale lavoro", con la delega al Governo per la riforma degli ammortizzatori sociali e degli incentivi all’occupazione, ma ancora più importante è l’esercizio che di queste deleghe sarà fatto.

Circa gli ammortizzatori sociali, riteniamo che occorra intervenire sull’istituto della Cassa Integrazione Straordinaria, garantendone la fruibilità a tutte le aziende che vi contribuiscono (oggi è pagata da tutte le imprese con oltre 15 dipendenti, ma solo le aziende medio-grandi, di fatto, possono accedervi) e riservandolo alle situazioni in cui esiste una credibile prospettiva di reimpiego per i lavoratori interessati. Negli altri casi va incoraggiato il ricorso alla mobilità, secondo gli intenti originari della Legge 223/91.

Vanno definitivamente superati strumenti quali mobilità lunga e prepensionamenti, per motivi di costi e iniquità: finiscono per usufruirne solo le grandi aziende, alimentano il lavoro sommerso, si pongono in palese contraddizione con le esigenze di intervento sul sistema pensionistico.

Se occorre limitare ulteriormente l’accesso al pensionamento di anzianità, che ha rappresentato per anni un’importante valvola di flessibilità per le PMI, sarebbe incomprensibile che si facessero eccezioni a qualunque titolo.

Riteniamo praticabili forme di part time "a staffetta" fra giovani e anziani, purché coinvolgano lavoratori che abbiano già i requisiti per la pensione di anzianità. Ma ancor meglio vediamo misure che incoraggino la permanenza al lavoro di persone con i requisiti per l’anzianità, con un risparmio per il sistema previdenziale, accompagnate da misure che agevolino il part time, senza però che vi sia un legame stretto fra i due interventi: l’esperienza insegna che gli strumenti macchinosi e dirigistici finiscono per rimanere inapplicati.

Le risorse recuperate dagli interventi sugli ammortizzatori sociali (e, in prospettiva, sul sistema previdenziale) possono essere indirizzate in parte all’abbattimento del carico contributivo sul lavoro, in linea con gli impegni del Patto Sociale, in parte ad una spesa sociale orientata a finanziare politiche attive del lavoro, formazione professionale, servizi per l’impiego.

Le stesse sperimentazioni in atto sul Reddito Minimo di inserimento possono dare indicazioni utili su come legare un "reddito di cittadinanza" alla responsabilizzazione dei singoli in direzione della ricerca del lavoro o comunque dell’integrazione sociale.

Le indicazioni comunitarie spingono anche ad una razionalizzazione degli incentivi all’occupazione. D’altro canto abbiamo un sistema di incentivi così variegato e, talora, contraddittorio, da diventare scarsamente comprensibile alle stesse imprese che dovrebbero utilizzarlo.

L’obbligo formativo fino a 18 anni rende l’apprendistato lo strumento di elezione per le assunzioni fino a quella età. Vanno però rimossi i residui vincoli che ne limitano l’uso nelle aziende industriali (lavoro straordinario e notturno, mansioni) fermo restando il rispetto delle finalità formative.

Con riferimento alla procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea nei confronti dello Stato italiano in materia di contratti di formazione e lavoro, desideriamo rappresentare la gravità del problema in esame, anche per i possibili effetti negativi sul piano occupazionale, e l’urgenza che il Governo italiano, adotti le opportune iniziative a salvaguardia dell’intero mondo produttivo.

Relativamente a tale aspetto sottolineiamo innanzitutto il valore positivo di questo istituto giuridico, attraverso il quale è stata svolta un'efficace azione contro la disoccupazione, in quanto i giovani inseriti con tale strumento sono stati confermati a tempo indeterminato in misura percentuale (oltre il 90%) di gran lunga più elevata rispetto a quella minima prevista dalla legge.

Effetti positivi si sono avuti anche nei confronti della categoria dei lavoratori invalidi che, con il contratto di formazione e lavoro, hanno potuto usufruire di un inserimento lavorativo agevolato e accompagnato dalle più opportune azioni formative; una modalità anticipata di collocamento mirato.

Sottolineiamo la necessita che lo strumento del contratto di formazione e lavoro debba permanere nel futuro, in quanto tal consolidato istituto giuridico - quale che sia il regime contributivo incentivante - conserva pur sempre delle peculiarità proprie sia con riguardo alle sue potenzialità occupazionali, sia relativamente al ruolo che con esso viene riservato alle parti sociali

Molti dei problemi su esposti sarebbe più razionalmente risolvibili "a monte" se il rapporto di lavoro a tempo indeterminato prevedesse in via ordinaria un periodo di prova adeguato, il salario d’ingresso, una ragionevole rescindibilità (ricordiamo, a questo riguardo, le nostre proposte per la generalizzazione della stabilità "obbligatoria" del posto di lavoro, con indennità economiche per il lavoratore licenziato crescenti con l’anzianità e le dimensioni aziendali).

Proprio l’impraticabilità di interventi sul rapporto di lavoro a tempo indeterminato (confermata, tra l’altro, dalla recente bocciatura delle pur timide aperture dello Statuto dei Lavori) ha amplificato la necessità di interventi sulla flessibilità in entrata ed ha favorito l’esplosione dei rapporti atipici.

Il vero intervento a favore dell’occupazione a tempo indeterminato sarebbe la "rimodulazione delle tutele". Se questa risulta impraticabile, occorre che almeno non si perdano i percorsi flessibili di accesso al lavoro oggi esistenti (come, per l’appunto, i CFL fino a 32 anni di età o le collaborazioni coordinate e continuative, sulle quali, per legge, stanno per essere imposti pesanti vincoli).

Vanno inoltre promossi strumenti innovativi come il lavoro temporaneo, che finora non ha dato i risultati occupazionali sperati principalmente per due motivi: l’incomprensibile limitazione del suo utilizzo solo alle professionalità medie ed elevate e gli alti costi che derivano direttamente dai pesanti obblighi imposti alle società fornitrici.

Pilastro II: imprenditorialità

La Commissione riconosce che il nostro principale problema è trasformare la forte tradizione imprenditoriale italiana in creazione di posti di lavoro.

Questo è in linea con la richiesta, che noi portiamo avanti da anni, di rimuovere gli ostacoli alla crescita delle piccole imprese.

Nel nostro ordinamento è presente una serie di soglie dimensionali per le imprese, al superamento delle quali scattano oneri e vincoli. La più nota è quella dei 15 dipendenti, oltre la quale esiste l’obbligo di reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato, il diritto all’attività sindacale, la contribuzione aggiuntiva sul lavoro straordinario e, con la recente legge sull’inserimento dei disabili, il collocamento obbligatorio.

Una soglia così bassa incoraggia il "nanismo" delle imprese; è perciò auspicabile una revisione delle normative che dovrebbe essere ispirata da due principi:

  1. una graduatoria di obblighi per imprese di diverse dimensioni è accettabile, ma è meglio evitare, per quanto possibile, dislivelli eccessivi fra le condizioni previste per aziende al di sopra o al di sotto di certe soglie dimensionali. Il principio generale dovrebbe essere incentivare, o almeno non scoraggiare, la crescita delle imprese;

  2. se si deve identificare una soglia dimensionale per la piccola impresa, è bene considerare i 50 dipendenti, coerentemente con la Raccomandazione della Commissione delle Comunità europee del 3/4/1996.

Pilastro III: adattabilità

La Commissione raccomanda la stretta cooperazione tra Governo e Parti sociali in materia di formazione continua.

Auspichiamo che la legge 196/97 ed il Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione del Natale ’98 possono dare una valida risposta agli interrogativi della Commissione.

Difatti, nel sistema produttivo italiano finora sono stati evidenti le difficoltà di pianificare adeguati e tempestivi interventi formativi.

In questo ambito è soprattutto la PMI che si è trovata nelle condizioni di non poter usufruire, per carenze d’ordine strutturale ed organizzativo, di quanto in materia di formazione veniva fornito da istituti sia pubblici che privati.

Per di più, molti corsi hanno lasciato a desiderare sia rispetto alla qualità che alla effettiva possibilità della loro utilizzazione; difatti sono stati innumerevoli gli esempi di piccole e medie imprese che non sono riuscite a trarre beneficio dai finanziamenti pubblici destinati alla formazione, soprattutto per difficoltà d’ordine burocratico e legislativo.

Un altro aspetto negativo si è evidenziato nel rapporto tra mondo produttivo ed insegnamento, caratterizzato da un eccessivo divario tra evoluzione tecnologica e contenuti didattici.

In tal senso la piccola e media imprenditoria non può essere lasciata nell’attuale carenza di proprie strutture formative, con danno gravissimo non soltanto per l’economia in particolare, ma di tanta parte del tessuto sociale e politico dell’intera nazione.

Il Regolamento attuativo dell’art. 17 della legge 196/97 andrà a riordinare, dopo circa venti anni dalla precedente normativa quadro (legge 21 dicembre 1978, n. 845), il sistema della Formazione Professionale.

Questo percorso, che vede impegnati Governo, Istituzioni centrali, Regioni, Sindacati e Associazioni datoriali, Scuola, Enti di formazione pubblici e privati etc., dovrebbe assolvere a:

Per quanto sopra esposto, e stante questo sdoppiamento della formazione professionale in quella per le nuove leve e quella per gli adulti già inseriti nel sistema produttivo, in ambito UE e soprattutto in Italia non è stato ancora possibile realizzare una politica formativa efficace.

Più in particolare riteniamo che il problema della formazione professionale vada considerato in due aspetti principali:

In tale prospettiva, il problema della formazione continua comporta soluzioni di metodo e di realizzazione istituzionale, e permette un coordinamento ed una pianificazione del raccordo tra produzione e lavoro, tra imprenditoria e prestazioni d’opera, tra innovazione tecnologica e trasformazione delle abilità del primo aspetto, un elemento di coesione sopranazionale nel quadro dell’insieme europeo.

In questo senso la formazione continua dovrà gradualmente sostituire, per gran parte, quanto nell’emergenza viene effettuato nei confronti dei giovani.

Il suo compito non potrà essere che quello di garantire l’utilizzo di una preparazione scolastica diversa e più adeguata, ed il suo completamento in settori e situazioni particolari della produzione.

In conclusione, riteniamo che la formazione continua deve poter essere continua nel senso più comprensivo del termine, con una azione di assistenza, senza soluzioni di continuità, nell’avvicendamento delle tecniche strumentali e nel rinvigorimento costante e sistematico della formazione di base.

Pilastro IV: pari opportunità

La Commissione ci ricorda il legame tra la scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro e lo scarso utilizzo del part time.

Per favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è quindi indispensabile la promozione del part time, che va reso più flessibile (superamento del divieto di lavoro supplementare, semplificazione della procedura per modificare gli orari concordati) ed incentivato sul piano contributivo, per tenere conto dei costi organizzativi che la sua adozione comporta in molte imprese industriali.

Per le modifiche di carattere normativo si può cogliere l’occasione del recepimento della direttiva 97/81/CE.

A questo proposito la ribadiamo la nostra disponibilità a lavorare perché si giunga ad "avvisi congiunti" delle Parti sociali sul recepimento delle direttive comunitarie in materia di lavoro (tempo parziale, congedi parentali, CAE, etc.) e chiede al Governo di promuovere la costituzione di appositi tavoli con la presenza di tutte le forze sociali interessate, coerentemente con la prassi applicata in occasione del "Patto per lo sviluppo e l’occupazione".

 

12. Politiche per il mezzogiorno

La politica di sviluppo del Mezzogiorno deve rappresentare un punto fondamentale nella strategia di programmazione del Governo.

L’impegno per creare un clima di fiducia nella crescita e nello sviluppo futuro del Mezzogiorno, impegnando risorse e differenziando il proprio intervento al fine di stimolare gli investimenti interni ed attrarre nell’area capitali e risorse esterne, dovrebbe essere accompagnata, però, da una più esplicita indicazione delle risorse ad ciò destinate.

Si condivide l’impegno a migliorare gli interventi volti al miglioramento del contesto in cui operano le imprese attraverso interventi sulle infrastrutture selezionati, in grado dunque di premiare la qualità progettuale, il reale raggiungimento degli obiettivi prefissati ed il rispetto dei tempi previsti.

La questione centrale per la nuova fase di programmazione risiede nel miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione pubblica attraverso una razionalizzazione degli interventi, sulla base dell’esperienza degli anni passati.

La lettura dei dati disponibili relativi al sostegno pubblico in tali aree negli anni scorsi mostra come la numerosità degli interventi effettuati non sia stata motivata da una pluralità di obiettivi diversi quanto piuttosto da una progressiva stratificazione di azioni che ha portato negli anni a una sovrapposizione degli strumenti. Il risultato, oltre all’aumento dei costi di gestione e di manutenzione dell’intero sistema, si traduce in una minore concentrazione degli interventi che, in un periodo di risorse scarse, ha effetto negativo sui risultati globali dell’azione pubblica.

In tal senso riteniamo eccessivo il ruolo degli strumenti di programmazione negoziata che, anche secondo gli stessi attori dello sviluppo locale, si rivelano incapaci di concretizzarsi in interventi concreti, difficoltà rilevabile pienamente nel basso livello di utilizzazione delle risorse destinate. A tale riguardo si appoggia pienamente l’ipotesi di riprogrammare parte dei fondi 1994-1999 destinati alla programmazione negoziata a favore della legge 488/92 a condizione che le risorse disponibili vengano usate immediatamente per colmare il vuoto creato dall’inattività dello strumento agevolativo nel corso del corrente anno.

Per quanto riguarda infine il quadro finanziario delle risorse si sottolinea la necessità di assicurare continuità agli interventi, attraverso una programmazione finanziaria orientata a dare certezza sulle risorse disponibili sul medio periodo. Il riconoscimento della positività e dell’efficacia degli interventi di una legge quale la 488/92 deve essere accompagnata da un impegno finanziario costante e certo da parte del Governo. Ci si aspetta dunque che all’obiettivo generale posto dal Governo sulla questione corrisponda l’assegnazione in sede di manovra finanziaria di un adeguato livello di risorse, anche se gli importi complessivi indicati nel documento lasciano ampi margini di incertezza sulla reale possibilità di effettuare a tal fine un cospicuo stanziamento.



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